Le Mille e Una Notte La Storia del Pescatore.

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Le Mille e una Notte

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Le mille e una notte - Introduzione

1400 ca.

Le mille e una notte.

Scritti originariamente in arabo, i racconti delle Mille e una notte furono raccolti in un arco di tempo di ben seicento anni.

Capolavoro della letteratura araba, l'opera è entrata a far parte del patrimonio letterario mondiale.

Storia del Re Greco e del medico Duban

Storia del Marito e del Pappagallo

Storia del Visir punito

Storia del Giovine Re delle Isole Nere

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LE MILLE E UNA NOTTE - LA STORIA DEL PESCATORE

C'era una volta un pescatore vecchissimo, e così povero, che guadagnava appena di che mantenere la sposa e i tre figli. Tutti i giorni andava a pesca sul fiume, e un giorno mentre ritirava le reti sentì una certa resistenza; credendo di aver fatto una buona pesca, già se ne compiaceva fra sé; ma un momento dopo scoprì che invece del pesce, c'era nella rete solo la carcassa d'un asino e n'ebbe molto dolore...

Quando il pescatore, afflitto di aver fatto cattiva pesca, ebbe accomodate le sue reti, rotte dalla carcassa dell'asino, le gettò una seconda volta. Tirandole sentì ancora molta resistenza, ciò che gli fece credere che fossero piene di pesce: ma trovò invece un grande paniere pieno di sabbia e di fango.

Egli ne fu molto afflitto.

«Oh, fortuna!», esclamò con voce tremante. «Cessa d'essere adirata con me, e non perseguitare oltre uno sventurato!»

Terminando questo lamento, gettò bruscamente il paniere, e dopo aver ben lavate le sue reti, che il fango aveva imbrattate, le gettò per la terza volta; ma non ne trasse che pietre, conchiglie e sozzure. Non è possibile dire quale fosse il suo dispiacere; poco mancò che non perdesse la ragione.

Intanto, siccome il giorno cominciava a spuntare, da buon musulmano non scordò di fare la sua preghiera; poi gettò le reti per la quarta volta, e quando pensò che doveva esservi del pesce, le tirò su con gran pena.

Anche questa volta però non c'era pesce: ma un vaso di rame giallo, che al peso gli sembrò pieno di qualche cosa, soprattutto osservò che era chiuso e suggellato col piombo, e aveva l'impronta d'un sigillo.

La cosa lo rallegrò.

«Io lo venderò a un fonditore», diceva, «e col denaro che ne ricaverò comprerò una misura di biada.»

Esaminò il vaso da tutti i lati, e lo scosse per vedere se ciò che v'era dentro faceva rumore.

Non avendo sentito nulla, arguì dal peso del vaso e dall'impronta del sigillo sul coperchio di piombo, che doveva contenere qualche oggetto prezioso.

Per scoprirlo prese il coltello, e con qualche fatica l'aprì. Lo inclinò subito verso terra: ma ciò che lo sorprese estremamente, fu che non ne uscì nulla. Lo mise davanti a sé e mentre lo esaminava attentamente, ne uscì un fumo densissimo che l'obbligò a retrocedere di due o tre passi.

Il fumo si elevò fino alle nubi, e, estendendosi sul mare e sulla riva, formò un grosso nuvolone: spettacolo che provocò, come si potrà immaginare, uno sbalordimento straordinario nel pescatore.

Allorché il fumo fu tutto fuori dal vaso, si riunì e divenne un corpo solido, da cui si formò un genio alto due volte più del più grande di tutti i giganti.

Alla vista del mostro di una grandezza così smisurata, il pescatore voleva fuggire: ma era così turbato e così sbalordito, che non poté camminare.

«Salomone!», gridò subito il genio, «Salomone! Grande profeta di Dio, perdono! Perdono! Io non mi opporrò giammai alla vostra volontà, io obbedirò a tutti i vostri comandi...»

Il pescatore non appena sentì le parole del genio, si rassicurò e gli disse:

«Spirito superbo, che dite? Son più di diciotto secoli che Salomone, il profeta di Dio, è morto; narratemi la vostra storia e ditemi perché vi siete rinchiuso in questo vaso?».

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A tale discorso il genio, guardando il pescatore con aria fiera, gli rispose:

«Parlami più civilmente: sei molto ardito nel chiamarmi spirito superbo».

«Ebbene», rispose il pescatore, «vi parlerò con più civiltà, chiamandovi gufo della felicità.»

«Io ti dico», riprese il genio, «di parlarmi più civilmente prima che ti uccida.»

«E perché mi dovreste uccidere?», replicò il pescatore. «Io vi ho liberato: l'avete forse scordato?»

«Me ne ricordo», rispose il genio, «ma questo non m'impedirà di farti morire: e ti posso accordare una sola grazia.»

«E qual è questa grazia?», disse il pescatore.

«Di lasciarti scegliere», rispose il genio, «in qual modo vuoi che ti uccida.»

«Ma in che vi ho offeso?», disse il pescatore. «Così volete ricompensarmi del bene che vi ho fatto?»

«Io non posso trattarti altrimenti», disse il genio, «e perché tu ne sia persuaso, ascolta la mia storia.

Io sono uno di quegli spiriti ribelli che si opposero alla volontà di Dio. Tutti gli altri geni riconobbero il gran Salomone per profeta di Dio, e si sottoposero a lui. Sakhr, e io, fummo i soli che non volemmo commettere simile bassezza. Quel possente monarca, per vendicarsi, incaricò Asaf figlio di Barkhiyà, suo primo ministro, di venirmi a prendere. Così fu fatto; Asaf venne ad impadronirsi della mia persona e mio malgrado mi condusse davanti al trono del suo padrone.

Salomone figlio di David, mi comandò di lasciare il mio genere di vita e di riconoscere il suo potere. Rifiutai di obbedire e preferii espormi al suo risentimento, anziché prestargli giuramento di fedeltà e di sottomissione come esigeva da me. Per punirmi mi chiuse in questo vaso di rame, e per essere certo che io non forzassi la mia prigione, impresse egli stesso sul coperchio di piombo il suo sigillo, dov'è inciso il gran nome di Dio. Fatto ciò, diede il vaso ad un genio coll'ordine di gettarmi in mare, il che fu eseguito con mio sommo rammarico.

Durante il primo secolo nella mia prigionia giurai che se qualcuno mi avesse liberato, l'avrei fatto ricco anche dopo la sua morte; ma il secolo passò e nessuno venne a salvarmi.

Nel secondo secolo giurai di donare tutti i tesori della terra a chiunque mi mettesse in libertà. Ma non fui più fortunato.

Nel terzo promisi di far potente monarca il mio liberatore, di stargli sempre vicino ed accordargli ogni giorno per tre volte ciò che mi avesse chiesto, qualunque cosa fosse: ma quel secolo passò come i due precedenti, e io rimasi sempre nel medesimo stato.

Infine, disperato, e molto irato di vedermi prigioniero per così lungo tempo, giurai di uccidere senza pietà chiunque mi liberasse, non accordandogli altra grazia che la scelta della morte. Poiché sei stato tu oggi che mi hai liberato, scegli come vuoi ch'io ti uccida.»

Questo discorso afflisse molto il pescatore.

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«Sono assai infelice», esclamò, «d'essere venuto in questo luogo e di aver reso un favore ad un ingrato. Considerate, di grazia, la vostra ingiustizia, e revocate un giuramento così poco ragionevole. Perdonatemi, e Dio vi perdonerà. Se mi lascerete la vita, egli vi proteggerà da tutti gli attentati che si faranno contro la vostra vita.»

«No, la tua morte è certa», disse il genio, «scegli solo il modo che più ti aggrada.»

Il pescatore, vedendolo fermo nella sua risoluzione, se ne addolorò molto, non tanto per sé, quanto per i suoi tre figli, immaginando la miseria in cui si sarebbero trovati dopo la sua morte. Tentò di placare il genio.

«Deh!», riprese, «abbiate pietà di me, considerate quello che ho fatto per voi.»

«T'ho già detto», aggiunse il genio, «che per questa ragione appunto sono obbligato a toglierti la vita.»

«E' strano davvero», replicò il pescatore, «che vogliate rendere male per bene: il proverbio dice che chi fa del bene a chi non lo merita è sempre mal pagato, e ora vedo che è proprio vero.»

«Non perdiamo tempo», interruppe il genio, «nulla saprebbe distogliermi dal mio proposito. Deciditi dunque a dire come vuoi che ti uccida.»

La necessità aguzza l'ingegno. Il pescatore immaginò uno stratagemma.

«Giacché non posso evitare la morte», disse al genio, «io mi sottometto alla volontà di Dio. Ma prima che io scelga un genere di morte, vi scongiuro per il gran nome di Dio, che era impresso sul sigillo del profeta Salomone figliolo di David, di dirmi la verità sopra una domanda che voglio farvi.»

Quando il genio vide che gli faceva uno scongiuro, che lo costringeva a rispondere positivamente, tremò tutto, e disse al pescatore:

«Domandami quello che vuoi, e affrettati...».

Avendo il genio promesso di dire la verità, il pescatore gli disse:

«Io vorrei sapere se effettivamente eravate in questo vaso; osereste voi giurarlo nel gran nome di Dio?».

«Sì», rispose il genio, «giuro per quel gran nome che io ero in quel vaso, e che questo è verissimo.»

«In buona fede», rispose il pescatore, «io non posso credervi. Questo vaso non potrebbe neanche contenere uno dei vostri piedi; come può essere che il vostro corpo vi sia stato chiuso intero?»

«Eppure ti giuro, che ero là dentro. Come puoi non credermi dopo il giuramento che ti ho fatto?»

«No», disse il pescatore, «e non vi crederò mai, salvo che non me lo facciate vedere.»

Allora avvenne una dissoluzione del corpo del genio, il quale mutandosi in fumo, si stese sul mare e sulla riva, e poi, raccogliendosi, cominciò a rientrare nel vaso e continuò con una lenta ed eguale successione, finché non restò più nulla al di fuori.

Subito ne uscì una voce che disse al pescatore.

«Ebbene, incredulo pescatore, eccomi nel vaso: mi credi ora?»

Il pescatore, invece di rispondere al genio, afferrò il coperchio di piombo e avendo chiuso prontamente il vaso:

«Genio», gli gridò, «domandami grazia a tua volta, e scegli di qual morte vuoi che io ti faccia morire. Ma no, è meglio che io ti getti nuovamente in mare nel medesimo luogo donde t'ho tratto. Poi farò fabbricare una casa su questa riva, per avvertire tutti i pescatori che verranno a gettarvi le reti di guardarsi bene dal pescare un cattivo genio come te, che ha fatto giuramento di uccidere colui che lo metterà in libertà».

A queste parole offensive il genio irritato fece tutti gli sforzi per uscire dal vaso, ma non gli fu possibile perché l'impronta del sigillo del profeta Salomone figlio di David glielo impediva.

Così, vedendo che il pescatore aveva il vantaggio sopra di lui, prese il partito di nascondere la sua collera, dicendogli in tono addolcito:

«O pescatore, guardati bene dal far ciò. Quel che io ho fatto non era che uno scherzo e tu non devi pigliare la cosa sul serio!».

«O genio», rispose il pescatore, «tu che eri un momento fa il più grande di tutti di geni, e ora non sei che il più piccolo, sappi che i tuoi discorsi non ti gioveranno a nulla. Tu tornerai nel mare. Se vi hai dimorato tutto il tempo che mi hai detto, potrai ben dimorarvi fino al giorno del giudizio. Io t'ho pregato in nome di Dio di non togliermi la vita, e tu hai rigettate le mie preghiere. Ora io debbo renderti pan per focaccia.»

Il genio non risparmiò nulla per tentare di commuovere il pescatore.

«Apri il vaso», gli disse, «dammi la libertà, te ne supplico, e ti prometto che sarai contento di me.»

«Tu sei un traditore», rispose il pescatore, «io meriterei di perdere la vita, se avessi l'imprudenza di fidarmi di te. Tu non mancheresti di trattarmi come un certo re greco trattò il medico Dubàn. E questa una storia che voglio raccontarti, perciò tendi l'orecchio e ascoltami.»

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STORIA DEL RE GRECO E DEL MEDICO DUBAN

Vi era nel paese di Zuman, in Persia, un re i cui soggetti erano di origine greca. Questo re era coperto di lebbra e i suoi medici, che avevano inutilmente messo in opera tutta la loro scienza per guarirlo, non sapevano più che cosa ordinargli, quando un abilissimo dottore, chiamato Dubàn, capitò a corte.

Questo medico aveva tratto la sua scienza da libri greci, persiani, turchi, arabi, latini, siriaci ed ebraici, e, oltre a essere dotto in filosofia, conosceva perfettamente le buone e le cattive qualità d'ogni specie di piante e di droghe. Informato della malattia del re e avendo saputo che i medici l'avevano abbandonato, si vestì meglio che poté e trovò il mezzo di farsi presentare a lui.

«Sire», gli disse, «io so che tutti i medici che vi hanno curato non hanno potuto guarirvi dalla vostra lebbra; se volete farmi l'onore di gradire i miei servigi, m'impegno di guarirvi, senza pozioni e senza infusi.»

Il re, ascoltata questa proposta, rispose:

«Se voi sarete tanto abile da fare ciò che dite, prometto di arricchire voi e la vostra posterità, senza contare i doni che vi farò.

Diverrete infatti il mio più caro favorito. Mi promettete davvero di guarirmi senza medicine?».

«Lo spero proprio, sire! Con l'aiuto di Dio», rispose.

Allora il medico Dubàn si ritirò in casa sua e fece un maglio cavo dalla parte del manico, e vi pose la droga di cui intendeva giovarsi. Fatto ciò, preparò anche un globo come desiderava, e con questo l'indomani si presentò al re, al quale, dopo aver fatta una profonda riverenza, disse che stimava conveniente che sua maestà salisse a cavallo e si trasferisse in piazza per giuocare al maglio.

Il re fece ciò che diceva, e quando fu nel luogo destinato al gioco del maglio a cavallo, il medico si avvicinò a lui col maglio preparato, e presentandoglielo disse:

«Prendete, sire, esercitatevi con questo maglio e spingete questa palla per la piazza, finché sentirete la mano ed il corpo in sudore.

Quando il rimedio che io ho chiuso nel manico di questo strumento sarà scaldato dalla vostra mano, penetrerà per tutto il corpo; allora farete ritorno al vostro palazzo, entrerete nel bagno, ove vi farete lavare e strofinare ben bene, poi vi adagerete nel letto e, domani quando vi alzerete, sarete guarito».

Il sovrano eseguì a puntino quanto gli aveva prescritto il dottore, e, alzatosi il giorno dopo, scoperse con stupore e gioia che la sua lebbra era guarita e che aveva il corpo sano come se non fosse stato mai attaccato da quella malattia.

Appena fu vestito entrò nella sala di pubblica udienza, salì sul trono e si fece vedere da tutti i cortigiani, che si erano riuniti là di buon'ora per conoscere il risultato della cura.

Quando videro il re perfettamente guarito, mostrarono tutti un'immensa gioia.

Il medico Dubàn entrò nella sala e andò a prostrarsi ai piedi del trono.

Avendolo visto, il re lo chiamò, e fattolo sedere al suo fianco, lo mostrò all'assemblea, facendogli tutte le lodi che meritava.

Il re greco, continuò il pescatore, non si contentò di ricevere alla sua tavola il medico Dubàn: ma quando volle congedare l'assemblea, gli fece indossare una lunga veste ricchissima e simile a quella che portavano ordinariamente i suoi cortigiani in sua presenza; oltre a ciò gli fece dare duemila dinàr.

L'indomani e i giorni seguenti non cessò di blandirlo, infine questo principe, credendo non poter mai ricambiare abbastanza quel valente medico, profondeva su lui tutti i giorni nuovi benefici.

Ora questo re aveva un gran visir avaro, invidioso, e per natura capace d'ogni sorta di delitti. Egli era geloso dei regali che erano fatti al medico, il cui merito incominciava a fargli ombra, e risolvette di fargli perdere il favore del re. Per riuscirvi andò a trovare questo principe, e gli disse in segreto che doveva comunicargli cosa di grande importanza.

Avendogli il re domandato che cosa fosse: «Sire», gli disse, «è ben pericoloso per un sovrano aver fiducia in un uomo di cui non ha provato la fedeltà; lo colmate di benefici, facendogli tante carezze, e non sapete che è un traditore, che si è introdotto in questa corte per assassinarvi». «Da chi avete saputo ciò che osate dirmi?», chiese il re. «Sire», replicò il visir, «io sono perfettamente sicuro di ciò che ho l'onore di sottomettervi: il medico Dubàn è partito dal fondo della Grecia, suo paese, ed è venuto a stabilirsi nella vostra corte, solo per eseguire l'orribile disegno di cui vi ho parlato.» «No, no, visir», interruppe il re, «io sono sicuro che quest'uomo da voi trattato da perfido è il più virtuoso e il migliore di tutti gli uomini, né vi è persona al mondo che io ami quanto lui. Voi sapete con quale rimedio o piuttosto con quale miracolo mi ha guarito dalla lebbra. Perché togliermi la vita, dal momento che m'ha salvato da una morte sicura? Cessate dunque di volermi ispirare ingiusti sospetti: invece di ascoltarli, vi avverto che da questo giorno stabilisco per questo grand'uomo una pensione di mille dinàr al mese finché vivrà. Se pure dividessi tutte le mie ricchezze e i miei stati con lui ancora non lo ricompenserei abbastanza di quanto ha fatto per me. Capisco: la sua virtù eccita la vostra invidia: ma non crediate che io mi lasci prevenire contro di lui ingiustamente: mi ricordo bene di ciò che un visir disse al re Sindibàd suo padrone per impedire che facesse morire il principe suo figlio...» «Sire», interruppe il visir, «io supplico vostra maestà di perdonare il mio ardire ma vorrei sapere ciò che il visir del re Sindibàd disse al suo signore per convincerlo a non uccidere suo figlio.» Il re greco ebbe la compiacenza di soddisfarlo e rispose: «Il visir, dopo aver ricordato al re che doveva temere di commettere un'ingiustizia per istigazione della suocera, gli raccontò questa storia».

STORIA DEL MARITO E DEL PAPPAGALLO

Un buon uomo aveva una bella moglie. Egli l'amava con tanta passione che non la perdeva quasi mai di vista. Un giorno che affari pressanti l'obbligavano ad allontanarsi da lei, andò in un luogo dove vendevano degli uccelli e comprò un pappagallo, che non solo parlava benissimo, ma aveva la virtù di narrare tutto ciò che succedeva in sua presenza. Lo portò a casa in una gabbia, pregò la moglie di metterlo nella sua stanza, di prenderne cura durante il suo viaggio e poi partì. Al suo ritorno non mancò d'interrogare il pappagallo su ciò che era avvenuto durante la sua assenza. L'uccello allora gli raccontò cose che lo indussero a fare grandi rimproveri a sua moglie. Essa credette che qualcuna delle schiave l'avesse tradita, ma quelle giurarono tutte di essere state fedeli, e convennero che nessuno aveva potuto raccontare tali cose salvo il pappagallo. Convinta di ciò, la donna cercò nella sua mente un mezzo per distruggere i sospetti del marito e vendicarsi in pari tempo del pappagallo. Ebbe un'idea. Essendo partito il marito per un giorno, essa comandò a una schiava di far girare durante la notte sotto la gabbia dell'uccello un mulino a braccia, a un'altra di gettare acqua come fosse pioggia nella gabbia e ad una terza di prendere uno specchio e di voltarlo di qua e di là, al lume d'una candela, davanti agli occhi del pappagallo. Le schiave passarono gran parte della notte in questi lavori, eseguendoli abilmente. L'indomani il marito, essendo di ritorno, interrogò di nuovo il pappagallo intorno a quello che era avvenuto in casa, e l'uccello gli rispose: «Mio buon padrone, i lampi, i tuoni e la pioggia mi hanno talmente disturbato che io non posso dirvi quanto ho sofferto!». Il marito ben sapendo che non aveva piovuto quella notte, si persuase che il pappagallo non dicesse la verità, e concluse che non l'avesse detta neppure per quanto riguardava sua moglie. Allora per dispetto lo tirò fuori dalla gabbia, lo gettò a terra, e l'uccise. In seguito apprese dal vicinato che il povero pappagallo non aveva mentito parlando della condotta di sua moglie e si pentì d'averlo ucciso. Quando il re greco ebbe terminata la storia del pappagallo, aggiunse: «E voi, visir, per l'invidia che avete concepita contro il medico Dubàn, che non vi ha fatto alcun male, volete che lo faccia morire? Ma io me ne guarderò bene, per paura di dovermene pentire, come quel marito che aveva ucciso il suo pappagallo». Il cattivo visir era così interessato a perdere il medico Dubàn, che non si arrestò a quel primo tentativo. «Sire», replicò, «la morte del pappagallo era poco importante e io non credo che il suo padrone l'abbia compianto a lungo. Ma non so vedere perché il timore di opprimere un innocente, v'impedisca di far morire questo medico! Non basta che sia accusato di volere attentare alla vostra vita per darvi facoltà di togliergli la sua? Quando si tratta di assicurare i giorni di un re, un semplice sospetto deve passare per certezza, e val meglio sacrificare un innocente che salvare un colpevole. Ma, sire, questa non è una cosa incerta: il medico Dubàn vi vuole assassinare. Non è l'invidia che mi arma contro di lui, sono solo la sollecitudine che ho della conservazione di vostra maestà, e lo zelo che mi spingono a darvi un consiglio tanto importante. Se è falso, merito d'essere punito, come fu punito un'altra volta un visir.» «Che aveva fatto questo visir», chiese il re greco, «per essere degno di questo castigo?» «Lo dirò a vostra maestà, sire», rispose il visir, «se avrà la bontà di ascoltarmi.»

STORIA DEL VISIR PUNITO

C'era una volta un re che aveva un figlio appassionato per la caccia. Egli gli permetteva di prendersi spesso questo divertimento, ma aveva dato ordine al gran visir di accompagnarlo sempre e di non abbandonarlo mai. Un giorno di caccia quando i cacciatori colpirono con la lancia un cervo, il principe credendo di essere seguito dal visir, si diede ad inseguire la bestia. Corse tanto e il suo ardore lo portò così lontano che si trovò solo. Si fermò e, accorgendosi di essersi smarrito, volle ritornare, per raggiungere il visir, ma si perse del tutto. Mentre correva in tutte le direzioni, senza seguire una via sicura, incontrò sul ciglio d'una strada una donna che piangeva amaramente. Le domandò chi fosse, che cosa facesse sola in quel luogo e se avesse bisogno di soccorso. «Io sono la figlia del re delle Indie», rispose quella, «passeggiando a cavallo per la campagna mi sono addormentata e sono caduta. Il mio cavallo è fuggito, e non so che ne sia avvenuto.» Il giovane principe ebbe pietà di lei, e le propose di prenderla in groppa; essa accettò. Nel passare vicino a un casolare, la donna volle scendere, ed entrandovi disse: «Gioite, figli miei: vi porto un giovane bello e grasso». Ed altre voci le risposero subito: «Mamma, dov'è? Possiamo mangiarlo subito, perché abbiamo un grande appetito». Il principe non ebbe bisogno di sentire altro per comprendere il pericolo: si accorse cioè, che la donna che si diceva figlia di un re delle Indie era invece un'orca, moglie di quei demoni selvaggi chiamati orchi che si rifugiavano in luoghi disabitati, e si valgono di mille astuzie per sorprendere e divorare i passeggeri. Fu preso da spavento, e risalì rapidamente a cavallo. La pretesa principessa apparve in quell'istante, e, vedendo che aveva fallito il colpo, gridò al principe: «Non temete di nulla! Chi siete? Che cercate?». «Mi sono perso e cerco la via.» «Se vi siete perso raccomandatevi a Dio, ed egli vi libererà dalla difficoltà in cui siete.» Allora il principe alzò gli occhi al cielo, esclamando: «Signore onnipotente, gettate su di me lo sguardo, e liberatemi da questa nemica!». A questa preghiera la moglie dell'orco entrò nel casolare e il principe si allontanò precipitosamente. Per fortuna trovò la via, e, arrivato sano e salvo dal re suo padre, gli raccontò del pericolo che aveva corso per la trascuratezza del visir. Il re, irato contro il ministro, lo fece strangolare all'istante. «Sire», continuò il visir del re greco, «per ritornare al medico Dubàn, se non state attento, la fiducia che avete riposto in lui vi sarà funesta; io so con certezza che costui è uno spione inviato da nostri nemici per attentare alla vita di vostra maestà. Voi dite che vi ha guarito? E chi può assicurarvene? Chi sa se questo rimedio non produrrà col tempo un effetto mortale?» Il re greco, che aveva poco ingegno, non ebbe abbastanza intelligenza per accorgersi della malafede del suo visir, né abbastanza fermezza per persistere nella sua convinzione. Questo discorso lo scosse, e disse: «Visir, tu hai ragione: può essere venuto espressamente per togliermi la vita; bisogna vedere cosa debbo fare in tale circostanza». Quando il visir vide il re disposto a secondarlo, gli disse: «Sire, il mezzo più certo e più pronto per assicurare il vostro riposo e mettere in salvo la vostra persona, è quello di mandare a chiamare subito il medico Dubàn, e fargli tagliare la testa appena giunto». «E' vero», disse il re, «così prevengo ogni suo cattivo proposito.» E chiamato uno dei suoi ufficiali, gli ordinò di andare a cercare il medico, il quale senza sapere ciò che volesse il re, corse subito al palazzo. «Sai perché io ti ho ordinato di venir qui?», disse il re vedendolo. «No, sire», rispose, «io aspetto che vostra maestà si degni di dirmelo.» «Io ti ho chiamato per liberarmi di te, togliendoti la vita!» E' impossibile descrivere la sorpresa del medico, quando sentì pronunziare la sentenza di morte. «Sire», disse, «per quale ragione vostra maestà vuole farmi morire? Che delitto ho commesso?» «Ho saputo da fonte sicura», replicò il re, «che tu sei una spia, e che sei venuto alla mia corte per togliermi la vita. Colpisci», aggiunse al carnefice che era presente, «e liberami da un perfido che s'è introdotto in casa mia per assassinarmi!» A quest'ordine crudele, il medico indovinò che gli onori e i benefici ricevuti gli avevano suscitato dei nemici, e che il debole re si era lasciato ingannare dalle loro imposture. Si pentì di averlo guarito dalla lebbra, ma troppo tardi. «Dunque», gli disse, «mi compensate così del bene che vi ho fatto?» Il re non l'ascoltò, e ripeté il suo ordine al carnefice. Il medico ricorse alle preghiere, ed esclamò: «Ah! Sire, prolungatemi la vita, e Dio prolungherà la vostra; non fatemi morire, perché Dio potrebbe trattarvi allo stesso modo!...». Il pescatore a questo punto interruppe il suo racconto per rivolgersi al genio. «Ebbene, genio, vedi che quanto è successo al medico Dubàn e al re greco, si ripete ora.» Il re greco, continuò, invece di ascoltare la preghiera che gli aveva fatto il medico scongiurandolo in nome di Dio, gli disse con durezza: «No, no, è una necessità assoluta che io ti faccia perire; altrimenti tu potresti togliermi la vita con maggior abilità di quanta ne avesti nel guarirmi». Intanto il medico sciogliendosi in lacrime, e lamentandosi pietosamente perché era così mal compensato del bene fatto al re, si preparava a ricevere il colpo mortale. Il carnefice gli bendò gli occhi, e gli legò le mani, poi si accinse a sguainare la sciabola. Allora i cortigiani, che erano presenti, presi da compassione, supplicarono il re di fargli grazia, assicurandolo che il medico non poteva essere colpevole, e garantendone l'innocenza. Ma il re fu inflessibile, e parlò in modo da non ammettere replica. Il medico in ginocchio, con gli occhi bendati e sul punto di ricevere il colpo fatale si rivolse per l'ultima volta al re dicendogli: «Sire, poiché vostra maestà non vuol revocare la sentenza di morte, la supplico almeno di accordarmi la libertà di andarmene a casa a dare ordini per la mia sepoltura e salutare per l'ultima volta la mia famiglia, a fare delle elemosine e a disporre dei miei libri. Ne ho uno fra gli altri, che voglio regalare a vostra maestà. E' un libro preziosissimo da conservare nel vostro tesoro». «Perché è così prezioso quel libro?», replicò il re. «Sire», rispose il medico, «esso contiene una infinità di cose curiose, la principale delle quali è che, quando mi sarà tagliata la testa, se vorrete darvi la pena di aprirlo alla sesta pagina e di leggere la terza riga della pagina, la mia testa risponderà a tutte le domande che vorrete farle.» Il re, curioso di vedere una cosa tanto meravigliosa, differì la morte del medico fino al giorno dopo, e lo lasciò andare a casa sotto buona scorta. Il medico, durante questo tempo, mise in ordine i suoi affari, e siccome si era sparsa la voce che dovesse succedere un prodigio inaudito dopo la sua morte, i visir, gli emiri, gli ufficiali della guardia e tutta la corte andarono nella sala delle udienze per essere testimoni. Subito si vide il medico Dubàn che avanzò fino ai piedi del trono reale con un grosso libro in mano. Si fece portare un catino, sul quale stese la coperta in cui era avvolto il libro, e, presentandolo al re disse: «Vi piaccia prendere questo libro, e, appena mi sarà stata tagliata la testa, comandate che la si ponga sul catino, sopra la coperta del libro; allora aprite il libro, e la mia testa risponderà a tutte le vostre domande. Ma permettete, sire, ch'io implori la clemenza di vostra maestà. In nome di Dio lasciatevi piegare; vi giuro che sono innocente!». «Le tue preghiere sono inutili», rispose il re, «e poiché si tratta di sentir parlare la tua testa dopo la tua morte, voglio che tu muoia!» Dicendo così, prese il libro dalle mani del medico e ordinò al carnefice di fare il suo dovere. La testa fu tagliata così abilmente che cadde nel catino, e appena fu messa sulla coperta, il sangue si arrestò. Allora con gran sorpresa del re e di tutti gli spettatori, essa aprì gli occhi e disse: «Sire, aprite il libro». Il re l'aprì, e vedendo che il primo foglio sembrava incollato al secondo, per voltarlo con più facilità portò il dito alla bocca e lo bagnò di saliva. Fece lo stesso fino al sesto foglio, e, non vedendo scrittura alla pagina indicata, disse: «Medico, qui non c'è scritto nulla». «Voltate ancora qualche altro foglio», disse la testa. Il re continuò a voltare le pagine, portando ogni volta il dito alla bocca, finché il veleno di cui era imbevuto ogni foglio, produsse il suo effetto, e il principe si sentì a un tratto agitare da un grande tremito: la sua vista si offuscò e cadde ai piedi del trono con forti convulsioni... Quando la testa del medico Dubàn s'accorse che il veleno aveva fatto il suo effetto gridò: «Tiranno! Ecco in qual modo si trattano i principi, che, abusando della loro autorità, fanno morire gli innocenti!». Questa fu la fine del re greco e del medico Dubàn. Tornando pertanto alla storia del pescatore e del genio quello, che teneva sempre le mani sopra il vaso, gli disse: «Se il re greco avesse lasciato vivere il medico, Dio avrebbe lasciato vivere lui: ma egli respinse le sue umili preghiere e Dio lo punì. Lo stesso è per te, o genio; se io avessi potuto ottenere da te la grazia domandata, avrei ora pietà del tuo stato, ma poiché, ad onta dell'immensa riconoscenza che mi dovevi persisti a volermi uccidere, io, a mia volta, non debbo aver pietà. Lasciandoti in questo vaso e gettandoti in mare, ti toglierò l'uso della vita sino alla fine dei secoli; questa è la vendetta che voglio prendere su di te». «Amico pescatore», rispose il genio, «ti scongiuro un'altra volta di non essere così crudele; pensa che non è giusto vendicarsi, e al contrario è lodevole rendere bene per male. Non mi trattare come Umàma trattò altra volta Atica.» «E che fece Umàma ad Atica?», disse il pescatore. «Oh! Se desideri saperlo, apri questo vaso. Credi che io voglia mettermi a raccontare storie in una prigione così stretta? Te ne racconterò quante ne vorrai, quando mi avrai tolto di qui.» «No», disse il pescatore, «non ti libererò: è inutile discuterne; ti sommergerò nel fondo del mare.» «Un'altra sola parola, pescatore», gridò il genio, «ti prometto di non farti più male, anzi ti insegnerò il mezzo per diventare molto ricco.» La speranza di liberarsi dalla povertà disarmò il pescatore. «Ti darei ascolto», disse, «se potessi fidarmi della tua parola. Giurami nel gran nome di Dio, che farai davvero quanto dici, e io aprirò il vaso. Non credo che tu sia tanto ardito da violare un giuramento.» Il genio giurò, e il pescatore tolse subito il coperchio dal vaso. - Prima ne uscì fumo, poi il genio riprese la sua forma, e la prima cosa che fece fu di gettare con una pedata il vaso in mare. Ciò spaventò il pescatore. «Che vuol dire questo, genio? Non vuoi serbare fede al giuramento? Devo ripetervi ciò che il medico Dubàn diceva al re greco: "Lasciatemi vivere e Dio prolungherà i vostri giorni!"?» La paura del pescatore fece ridere il genio, che gli disse: «No, pescatore, rassicurati; io ho gettato il vaso in mare per divertirmi e vederti turbato: e per dimostrarti che voglio mantenere la mia parola, prendi le tue reti e seguimi». Pronunciate queste parole, s'incamminò davanti al pescatore, il quale, carico delle sue reti, lo seguì con qualche diffidenza. Passarono davanti alla città, e salirono sulla cima d'una montagna, poi scesero in una vasta pianura che portava a un grande stagno, situato fra quattro colline. Quando furono arrivati alla sponda dello stagno, il genio disse al pescatore: «Getta le reti e prendi del pesce». Il pescatore non dubitò di prenderne, perché ne vide una gran quantità nello stagno; ma fu molto stupito di vederne di quattro colori differenti: bianchi, rossi, turchini e gialli. Gettate le reti riuscì a prenderne appunto quattro, uno per colore. Siccome non ne aveva mai visti di simili, rimase incantato ad ammirarli, e ritenendo di poterne trarre una somma considerevole, non stava più in sé dalla gioia. Il genio gli disse: «Porta questi pesci al tuo sultano: lui ti darà tanto denaro, quanto tu non ne hai maneggiato in tutta la vita. Potrai venire ogni giorno a pescare in questo stagno: ma ti avverto di gettare le reti solo una volta al giorno, altrimenti te ne verrà male, bada: questo è l'avviso che ti do; se lo seguirai, te ne troverai bene». Dicendo queste parole, il genio batté col piede la terra, la quale dopo averlo inghiottito si richiuse. Il pescatore, risoluto a seguire scrupolosamente i consigli del genio, si astenne dal gettare un'altra volta le reti. Si incamminò verso la città, lietissimo della sua pesca, e, facendo mille riflessioni sulla sua nuova avventura, se ne andò difilato al palazzo del sultano per offrirgli i suoi pesci. Non poca fu la sorpresa del sultano, quando vide quei bei pesci. Li prese uno dopo l'altro per esaminarli attentamente, e disse al suo primo visir: «Prendete questi pesci e portateli all'abile cuoca che mi inviò l'imperatore dei greci. Io credo che saranno buoni quanto belli». Il visir li portò egli stesso alla cuoca, e, ponendoli nelle sue mani, le disse: «Ecco quattro pesci che hanno portato al sultano; egli vi ordina di prepararglieli». Dopo essersi sbrigato della sua commissione, tornò dal sultano suo padrone che lo incaricò di dare al pescatore quattrocento piastre d'oro. Il pescatore, che non aveva mai posseduto in vita sua una somma tanto vistosa, credeva di sognare. Ma, dopo che l'ebbe impiegata per i bisogni della sua famiglia, si dovette render conto che quella somma era ben reale. Ma ora che ho parlato del pescatore, occorre che vi parli della cuoca, che era in grande imbarazzo. Ella infatti, non appena puliti i pesci, li aveva messi a friggere in padella e, quando li vide abbastanza cotti da un lato, li voltò: oh, prodigio inaudito! Appena voltati, il muro della cucina si aprì, e ne uscì una giovane di straordinaria bellezza. Era vestita di raso a fiori, all'egiziana, con pendenti agli orecchi, una collana di grosse perle, braccialetti d'oro ornati di rubini, e teneva in mano una bacchetta di mirto. Costei (con gran sorpresa della cuoca, che a tal vista rimase immobile) si avvicinò alla padella e toccando uno dei pesci con la bacchetta disse: «Pesce, pesce tieni fede al patto?». Non avendo il pesce risposto nulla, essa ripeté le stesse parole, e allora i quattro pesci, alzando la testa tutti in un punto, le dissero distintamente: «Sì, sì, se voi contate, noi contiamo; se voi pagate i vostri debiti, noi paghiamo i nostri; se voi fuggite, noi vinciamo e siamo contenti». Quand'ebbero pronunciato queste parole, la giovane signora rovesciò la padella e rientrò nell'apertura del muro, che subito si chiuse tornando come prima. La cuoca, spaventata da tutte queste meraviglie, essendosi rimessa dal suo sbalordimento, andò a rialzare i pesci che erano caduti sulla brace, ma li trovò più neri del carbone e tali da non poter assolutamente essere presentati al sultano. «Ah! Che sarà di me! Quando racconterò al mio augusto padrone ciò che ho veduto, sono sicura che non mi crederà! E si adirerà contro di me!» Mentre così si addolorava, entrò il gran visir e le domandò se i pesci fossero pronti. Lei gli raccontò ciò che le era avvenuto, e questo racconto, come si può immaginare, lo stupì molto: ma senza raccontarlo al sultano, inventò una favola che lo soddisfece. Intanto in quella stessa ora mandò a chiamare il pescatore, al quale disse: «Pescatore, portami altri quattro pesci simili a quelli che hai portato, perché è sopraggiunto un incidente che ha impedito di presentarli al sultano». Il pescatore, senza rivelargli ciò che aveva raccomandato il genio, e per dispensarsi dal fornire quel giorno i pesci chiestigli, si scusò parlando della lunghezza del cammino, e promise di portarli il giorno appresso. Infatti partì la notte e andò allo stagno, gettò le reti, e vi trovò quattro pesci che erano come gli altri: ciascuno cioè di un colore differente. Subito tornò e li consegnò al gran visir. Questi li prese, li portò egli stesso nella cucina, e vi si chiuse, solo con la cuoca, che cominciò a pulirli davanti a lui, come aveva fatto per gli altri quattro il giorno innanzi. Quando furono cotti da un lato e lei li voltò dall'altro, il muro della cucina tornò ad aprirsi, e comparve la medesima signora, con la bacchetta in mano. Si avvicinò alla padella, toccò uno dei pesci, gli disse le medesime parole, ed essi le diedero la medesima risposta alzando la testa. Il gran visir, essendo stato testimonio dell'accaduto, disse: «Ciò che avviene è così straordinario, che non possiamo tenerlo nascosto al sultano: vado subito ad informarlo». Infatti andò a trovarlo, e gli fece un fedele rapporto. Il sultano, assai sorpreso, mostrò un gran desiderio di osservare quell'apparizione straordinaria. Perciò fece venire il pescatore, e gli disse: «Amico potresti portarmi altri quattro pesci di colore differente?». Il pescatore rispose che se sua maestà voleva accordargli tre giorni per farlo, prometteva di contentarlo. Avendo il sultano acconsentito, andò allo stagno per la terza volta, e non fu meno fortunato delle precedenti, poiché la prima volta che gettò le reti, tirò su i quattro pesci colorati. Subito li portò al sultano, che essendo assai soddisfatto perché non li aspettava così presto, fece dare altri quattrocento pezzi d'oro al pescatore. Appena il sultano ebbe i pesci, li portò nel suo studio col necessario per cuocerli. Si ritirò là col suo gran visir; il ministro preparò i pesci, li pose sul fuoco in una padella, e quando furono cotti da un lato, li voltò dall'altro. Allora si aprì il muro dello studio, ma invece della giovane signora, ne uscì un moro. Costui aveva abiti da schiavo, era di statura gigantesca, e aveva in mano un grosso bastone verde. Avanzò fino alla padella, e toccando uno dei pesci col bastone, con voce terribile gli disse: «Pesce, pesce, tieni fede al patto?». A queste parole i pesci alzarono la testa, e risposero: «Sì, sì: se voi contate, noi contiamo; se voi pagate i vostri debiti, noi paghiamo i nostri; se voi fuggite, noi vinciamo e siamo contenti!». I pesci avevano appena pronunciato queste parole che il moro rovesciò la padella sul fuoco e trasformò i pesci in carbone. Fatto ciò, si ritirò fieramente per dove era venuto, e l'apertura del muro si chiuse. «Dopo ciò che ho visto», disse il sultano al gran visir, «non avrò più pace. Questi pesci senza dubbio significano qualche cosa di straordinario, e voglio averne la spiegazione.» Mandò a cercare il pescatore, e gli disse: «Pescatore, i pesci che ci hai portato mi procurano grande inquietudine: dove li hai pescati?». «Sire», rispose quello, «li ho pescati in uno stagno situato fra quattro colline, al di là della montagna che si vede di qui.» «Conoscete quello stagno?», chiese il sultano al visir. «No, sire», rispose il visir, «non ne ho mai sentito parlare. Eppure sono sessant'anni che vado a caccia nei dintorni al di là di quella montagna.» Il sultano domandò al pescatore a quale distanza dal suo palazzo si trovasse lo stagno. Il pescatore assicurò che non vi erano più di tre ore di cammino. A questa notizia e poiché restava ancor molta parte del giorno, il sultano ordinò a tutta la sua corte di porsi a cavallo, e il pescatore fece loro da guida. Tutti salirono sulla montagna, e scendendo dall'altro lato videro una vasta pianura, che nessuno fino allora aveva mai notato. Infine arrivarono allo stagno, che videro effettivamente situato fra quattro colline, come aveva detto loro il pescatore. L'acqua era così trasparente, che poterono scorgervi dei pesci, simili a quelli che il pescatore aveva portato a palazzo. Il sultano si arrestò sulla riva dello stagno; e dopo avere per qualche tempo osservato i pesci con ammirazione, domandò ai suoi emiri e a tutti i cortigiani come mai non avessero mai visto quello stagno, così poco distante dalla città. Gli risposero che non ne avevano mai neppure sentito parlare. «Poiché tutti convenite di non averne mai sentito parlare», disse loro, «io non sono meno meravigliato di voi di questa novità, e sono risoluto a non rientrare a palazzo se prima non saprò come mai questo stagno si trova qui, e perché dentro vi si trovino soltanto pesci di quattro colori.» Detto ciò, ordinò di attendarsi, e presto il suo padiglione e le tende della sua corte vennero rizzate sulle rive dello stagno. Al sopraggiungere della notte, ritiratosi nel suo padiglione, il sultano parlò in gran segretezza al suo gran visir, dicendogli: «Visir, io sono inquieto; questo stagno sconosciuto in questi luoghi, quel moro che ci apparve nel mio studiolo, quei pesci che abbiamo udito parlare, tutto suscita talmente la mia curiosità, che non posso resistere all'impazienza di soddisfarla. Perciò ho un'idea che voglio assolutamente mettere in atto. Mi allontanerò tutto solo da questo campo, pregandovi di tener segreta la mia assenza; restate nel mio padiglione e domani mattina, quando i miei emiri e cortigiani si presenteranno all'entrata, rimandateli via, dicendo che sono un po' indisposto, e che voglio star solo. Continuate a dire la stessa cosa finché non sarò di ritorno». Il visir disse molte cose al sultano per distoglierlo dal suo proposito; gli mostrò il pericolo al quale si esponeva, ma egli non abbandonò la sua risoluzione. Prese un abito comodo per viaggiare a piedi, si munì di una sciabola, e quando vide che nel suo campo era tutto tranquillo, partì senza essere accompagnato da nessuno. Volse i suoi passi verso una delle colline, che scalò con molta fatica. Trovò la china dall'altro lato più facile, e quando fu nel piano, camminò fino a che sorse il sole. Allora, scoprendo da lontano un grande edificio, gioì nella speranza di poter apprendere ciò che voleva sapere. Quando fu vicino, osservò che era un magnifico palazzo o piuttosto un castello di un bel marmo nero e coperto di acciaio fine e liscio, come il cristallo d'uno specchio. Contento di non aver dovuto aspettare a lungo per scoprire qualcosa degna almeno della sua curiosità, si arrestò dinanzi alla facciata del castello e la esaminò con molta attenzione. Avanzò fino alla porta, e vide che uno dei due battenti era aperto. Quantunque fosse libero d'entrare, credette meglio bussare. Diede un colpo assai leggero, e aspettò qualche tempo: ma non vedendo venir nessuno, pensò che non avessero sentito. Batté più forte la seconda volta, ma non vide né sentì nessuno. Ciò lo meravigliò, poiché non poteva immaginare che un castello così ben tenuto fosse abbandonato. «Se non c'è nessuno, non ho nulla da temere», disse fra sé, «e se c'è qualcuno, ho di che difendermi.» Allora entrò ed, avanzando nell'atrio: «C'è qualcuno qui», gridò, «per ricevere uno straniero che vorrebbe ristorarsi?». Ripeté le stesse parole due o tre volte: ma quantunque parlasse ad alta voce non ebbe risposta. Quel silenzio accrebbe la sua meraviglia. Passò in un cortile molto spazioso, e guardando da tutti i lati per vedere se vi fosse qualcuno, dovette constatare che non c'era anima viva. Entrò allora in grandi sale, col pavimento coperto di tappeti di seta, con cuscini e sofà rivestiti di stoffa della Mecca, e con le portiere delle più ricche stoffe delle Indie, ricamate di oro e d'argento. Poi entrò in un salone meraviglioso, in mezzo al quale c'era una grande fontana con un leone d'oro massiccio in ogni angolo. I quattro leoni gettavano acqua dalle fauci, che nel ricadere formava perle e diamanti e nel mezzo della fontana c'era un getto d'acqua che andava quasi a colpire il soffitto, dipinto all'arabesca. Il castello era circondato da tre lati da un giardino, abbellito da aiuole fiorite, getti d'acqua, boschetti, e mille altre delizie: ma ciò che maggiormente rendeva ammirabile quel luogo era un'infinità di uccelli che riempivano l'aria dei loro canti armoniosi, e che non potevano fuggire perché erano trattenuti da reti d'oro tese al di sopra degli alberi e del palazzo. Il sultano camminò a lungo in un appartamento, ove tutto gli parve magnifico. Quando fu stanco di camminare, si sedette in un salotto aperto sul giardino, meravigliato di quanto aveva veduto e di quanto vedeva e si mise a pensare, quando, a un tratto, una voce dolente, accompagnata da lamentevoli grida, colpì il suo orecchio. Egli ascoltò attentamente e sentì queste parole: «Fortuna, che non hai voluto lasciarmi godere a lungo d'una sorte felice, che mi hai reso il più sventurato di tutti gli uomini, cessa di perseguitarmi, e poni fine ai miei dolori con la morte. Ah! è mai possibile che io viva ancora dopo tutti i tormenti che ho sofferto?». Il sultano, commosso da questi pietosi lamenti, si alzò per andare dalla parte da dove provenivano. Quando fu alla porta di una grande sala, aprì una portiera, e vide un giovane ben fatto e riccamente vestito, seduto su un trono poco elevato da terra, con la tristezza dipinta sul volto. Il sultano si avvicinò e lo salutò. Il giovine ricambiò il saluto, facendogli un inchino con la testa, ma senza alzarsi. «Signore», disse al sultano, «so bene che dovrei alzarmi per ricevervi e farvi tutti gli onori possibili, ma sono impedito da un motivo così forte che non potete non scusarmi.» «Signore», gli rispose il sultano, «vi sono molto obbligato della vostra cortesia. Quanto al non potervi alzare, qualunque possa essere la vostra scusa, la ricevo assai di buon grado. Attirato dai vostri lamenti, commosso dalle vostre pene, vengo ad offrirvi i miei servigi. Piacesse a Dio che potessi portare sollievo ai vostri mali! Farei tutto il possibile. Mi lusingo che non vi spiacerà raccontarmi la storia delle vostre sventure, ma di grazia, ditemi anzitutto, che significa lo stagno che è qui vicino, dove si vedono pesci di quattro colori differenti? Che vuol dire questo castello? Perché vi trovate qui solo?» Invece di rispondere a queste domande, il giovane si mise a piangere amaramente. «Oh! Com'è incostante la fortuna!», esclamò. «Essa si diverte ad abbassare gli uomini che ha innalzato. Dove sono mai coloro che godono tranquillamente d'una felicità venuta da lei, e hanno giorni puri e sereni?» Il sultano, preso da compassione vedendolo in quello stato, lo pregò caldamente di dirgli la causa del suo grande dolore. «Ah! Signore», rispose il giovine, «come non essere afflitto, come impedire che i miei occhi siano fonti inesauribili di lacrime?» A queste parole, avendo alzato l'abito, mostrò al sultano che aveva un corpo umano solo dalla testa alla cintura, mentre l'altra metà del corpo era di marmo nero... Non è facile immaginare la meraviglia che provò il sultano, quando vide lo stato deplorevole del giovane. «Ciò che mi avete mostrato», gli disse, «mi addolora e insieme eccita la mia curiosità. Io ardo dal desiderio di conoscere la vostra storia, che dev'essere senza dubbio stranissima, e sono persuaso che lo stagno ed i pesci vi avranno la loro parte; perciò vi scongiuro di raccontarmela. Voi troverete conforto, perché gli infelici si consolano, raccontando le proprie sventure.» «Non voglio negarvi questa soddisfazione», rispose il giovane, «quantunque sia sicuro di rinnovare i miei dolori: ma vi prego fin d'ora di preparare le vostre orecchie, il vostro animo e perfino i vostri occhi a cose che sorpassano ciò che l'immaginazione può concepire di più straordinario.»

STORIA DEL GIOVINE RE DELLE ISOLE NERE

Dovete sapere, signore, continuò quegli, che mio padre Mahmùd era re di questo stato, il regno delle Isole Nere, che prende il suo nome dalle quattro piccole montagne vicine, che erano prima isole. La capitale, ove soggiornava mio padre, era nel luogo stesso dove adesso è lo stagno che avete visto; il seguito della mia storia vi spiegherà tutti questi cambiamenti. Mio padre morì all'età di sessant'anni. Io, non appena ebbi preso il suo posto, mi ammogliai, e la donna che io scelsi per dividere con me la dignità reale, era mia cugina. Ero lieto dei segni d'amore che ella mi dava, e dal canto mio concepii per lei tanta tenerezza, che nulla fu paragonabile alla nostra unione, per circa cinque anni. Passato questo tempo, mi accorsi che la regina, mia cugina, non provava più alcuna attrazione per me. Un giorno che era nel bagno, ebbi desiderio di dormire e mi gettai sopra un sofà. Due delle sue donne, che si trovavano allora nella mia stanza, vennero a sedersi una a capo e l'altra ai piedi del letto, con un ventaglio in mano, sia per moderare il caldo, sia per tener lontane le mosche, che avrebbero potuto turbare il mio sonno. Credendomi addormentato, s'intrattenevano a bassa voce tra loro: ma io tenevo gli occhi chiusi, senza dormire, e non persi una sola parola della loro conversazione. Una di queste donne disse all'altra: «La regina ha gran torto di non amare un principe così amabile!». «Sì, certo», rispose la seconda, «non ci capisco nulla, e non so perché ella esca tutte le notti e lo lasci solo, senza che lui se ne accorga.» «Eh! Come vuoi che se ne accorga?», rispose la seconda, «gli versa ogni sera nella sua bibita un certo succo d'erbe, che lo fa dormire profondamente, e lei ha il tempo di andare ove meglio le piace, e di tornare a riposarsi vicino a lui allo spuntare del giorno; allora lo sveglia, facendogli passare un certo odore sotto il naso.» Immaginate, signore, quale stupore e quali sentimenti m'ispirò un simile discorso. Quantunque la mia angoscia fosse profonda, seppi però dominarmi abbastanza per nasconderla: finsi di svegliarmi e di non aver sentito nulla. La regina tornò dal bagno, e prima di andare a letto mi presentò la tazza piena d'acqua che io ero solito bere: ma invece di portarla alla bocca mi avvicinai ad una finestra aperta e buttai via l'acqua così destramente, che lei non se ne accorse. E per non insospettirla rimisi la tazza nelle sue mani. Ci coricammo. Credendo ch'io fossi addormentato, lei si alzò con poche precauzioni e disse ad alta voce: «Dormi, e che tu possa non svegliarti mai più!». Si vestì rapidamente, e uscì dalla stanza. Appena la regina mia moglie fu uscita, seguitò a dire il re delle Isole Nere, balzai dal letto; mi vestii, presi la mia sciabola e la seguii così da vicino che la sentivo camminare davanti a me. Regolando i miei passi con i suoi, camminai leggermente per non farmi sentire. Oltrepassò molte porte che si aprivano a certe parole magiche che pronunciava, e l'ultima fu quella del giardino. Io mi fermai vicino alla porta perché non potesse scoprirmi mentre traversava un'aiuola, e, seguendola con gli occhi per quanto me lo permetteva l'oscurità, la vidi entrare in un piccolo bosco, i cui viali erano attorniati da strettissime palizzate. Me ne andai per un'altra via e, rasentando la palizzata d'un viale assai lungo, la vidi camminare con un uomo. Porsi attentamente orecchio ai loro discorsi, ed ecco quel che udii: «Io non merito», diceva la regina al compagno, «il rimprovero che mi fai di non essere abbastanza premurosa con te. Tu sai la ragione che me lo impedisce: ma se tutti i segni di affetto che ti ho dato finora non bastano per persuaderti della mia sincerità, sono pronta a dartene altri, ben maggiori. Non hai che da comandare: sai qual è il mio potere. Se lo desideri, prima che si levi il sole tramuterò questa città e questo bel palazzo in spaventevoli rovine, che saranno abitate da lupi, da gufi, da corvi. Vuoi che trasporti tutte le pietre di queste mura al di là del monte Caucaso e fuori dai confini del mondo abitato? Pronuncia una sola parola, e tutti questi luoghi muteranno aspetto». Terminate queste parole, l'uno e l'altra trovandosi al termine di un viale, si volsero e mi passarono davanti. Io, che avevo già cavato la sciabola dal fodero, ferii al collo l'amante della regina, che era più vicino a me e lo rovesciai a terra; credetti di averlo ucciso, e mi ritirai prontamente, senza farmi conoscere dalla regina, che volli risparmiare, perché era mia parente. Il colpo dato al suo amante era mortale; ma essa gli salvò la vita con un incantesimo, in modo tale però che si può dire che ora non sia più né vivo, né morto. Come traversavo il giardino per ritornare al palazzo, udii che la regina mandava altissime grida, e giudicando da ciò il suo dolore, fui contento di averle lasciato la vita. Rientrato nel mio appartamento tornai a coricarmi, e, soddisfatto di aver punito il temerario che mi aveva offeso, mi addormentai. Svegliandomi al mattino, trovai la regina adagiata accanto a me; non vi dirò se dormiva, oppure no: ma io mi alzai senza fare alcun rumore, e passai nel mio gabinetto per finire di vestirmi, poi andai a tener consiglio, e al ritorno trovai la regina, vestita a lutto, coi capelli sparsi e scarmigliati. «Sire», mi disse, «vengo a supplicare vostra maestà di non meravigliarsi se mi trova nello stato in cui sono. Mi sono giunte in una volta sola tre dolorose notizie che mi procurano un vivo dolore, di cui non vedete che i deboli segni.» «E quali sono queste notizie, signora?», le dissi. «La morte della regina mia madre, quella del re mio padre, ucciso in battaglia, e quella d'uno dei miei fratelli, caduto in un precipizio.» Io non mi adirai perché prendeva tale pretesto per nascondere la vera causa del suo dolore, e pensai che non sospettava che io fossi l'uccisore del suo amante. «Signora», le dissi, «anziché biasimare il vostro dolore, vi assicuro che lo condivido. Sarei piuttosto meravigliato se foste insensibile a tanta perdita. Piangete; le vostre lagrime sono segno infallibile del vostro eccellente cuore. Spero che il tempo e la ragione possano moderare il vostro dolore.» Lei si ritirò nel suo appartamento, dove si abbandonò interamente al suo dolore. Passò così un anno intero a piangere e a lamentarsi. Terminato questo tempo, mi domandò il permesso di far fabbricare il suo sepolcro nel recinto del palazzo, dove voleva dimorare fino all'ultimo suo giorno. Io glielo permisi, e lei fece fabbricare un magnifico palazzo con una cupola che può vedersi da qui, e lo chiamò Palazzo delle Lacrime. Quando fu terminato, vi portò il suo amante, che aveva fatto trasportare dove le era sembrato meglio fin dalla notte in cui l'avevo ferito. Aveva finora impedito che morisse, con bevande che gli faceva prendere, e continuò a dargliene ogni giorno, dopo che fu stabilito al Palazzo delle Lacrime. Peraltro, malgrado tutti questi incantesimi, non poté guarire quello sciagurato, il quale non solo è infermo, ma ha anche perduto l'uso della parola, e non dà segno di vita se non con gli occhi. Quantunque la regina non avesse altra consolazione che di vederlo e di dirgli quanto il suo folle amore poteva ispirarle di più appassionato, non tralasciava di fargli due lunghe visite al giorno. Io sapevo tutto ciò, ma fingevo d'ignorarlo. Un giorno andai per curiosità al Palazzo delle Lacrime, per sapere che cosa facesse la principessa, e da un luogo dove non potevo essere visto, la udii parlare in questi termini al suo amante: «Sono nella più grande afflizione vedendoti in questo stato: non sento meno di te i cocenti mali che soffri. Ti parlo sempre, anima cara, e tu non rispondi. Fino a quando rimarrai zitto? Dimmi una sola parola. Ah! I più dolci momenti della mia vita sono quelli che passo qui a dividere le tue pene. Non posso vivere lontana da te, e preferirei il piacere di vederti continuamente al possesso dell'universo». A questo discorso, che fu interrotto più d'una volta da sospiri e singhiozzi, persi la pazienza; mi mostrai, e avvicinandomi a lei, dissi: «Signora, avete pianto abbastanza; è tempo di porre fine ad un dolore che ci disonora entrambi; avete già dimenticato fin troppo quanto dovete a me e a voi stessa». «Sire», mi rispose, «se vi resta qualche riguardo, o piuttosto qualche compiacenza per me, vi supplico di non costringermi: lasciatemi alle mie pene mortali: è impossibile che il tempo le diminuisca.» Quando vidi che i miei discorsi, invece di farla ritornare al suo dovere, irritavano il suo furore, cessai di parlare e mi ritirai. Lei continuò a visitare tutti i giorni il suo amante, e per due anni interi non fece che disperarsi. Andai una seconda volta al Palazzo delle Lacrime quando lei vi si trovava. Essendomi nascosto di nuovo, udii che diceva all'amante: «Sono tre anni che non mi hai detto una sola parola, e che non rispondi alle prove d'amore che io ti do coi miei discorsi e coi miei gemiti. E' per insensibilità o per disprezzo? Oh tomba, hai forse distrutto quegli impeti di tenerezza che egli aveva per me? Hai forse chiuso quegli occhi che mi mostravano tanto amore e formavano tutta la mia gioia? No, no, io non lo credo. Dimmi piuttosto per quale miracolo sei diventata la depositaria del più raro tesoro della terra». Vi confesso, signore, che a tali parole mi sentii profondamente indignato, perché infine questo amante adorato, non era ciò che forse avete potuto immaginare: era un moro indiano, originario di quel paese! Io fui, ripeto, talmente indignato, che mi mostrai bruscamente, e apostrofando a mia volta la medesima tomba, esclamai: «O tomba, perché non inghiotti questo mostro che fa orrore alla natura? O piuttosto perché non distruggi i due amanti?». Non appena ebbi terminate tali parole, la regina, la quale era seduta vicino al moro, si alzò come una furia. «Ah! Crudele», mi disse, «tu sei la causa del mio dolore! Non pensare che io lo ignori. Fu la tua barbara mano che pose in questo stato l'oggetto dell'amor mio, e ancora hai la crudeltà di venire a insultare un'amante disperata!» «Sì, sono io», la interruppi, trasportato dalla collera, «sono io che ho castigato questo mostro, come ben meritava; e avrei dovuto trattare anche te allo stesso modo; mi pento di non averlo fatto, perché è ormai troppo tempo che tu abusi della mia bontà.» Così dicendo, snudai la sciabola e alzai il braccio per punirla: ma lei, guardando tranquillamente il mio gesto: «Per le virtù dei miei incantesimi ti comando di diventare metà marmo e metà uomo». All'istante, signore, io divenni come mi vedete, vivo tra i morti e morto tra i vivi. Dopo che la maga, proseguì il re, indegna di portare il nome di regina, mi ebbe così trasformato, mi fece trasportare in questa sala, con un altro incantesimo; poi distrusse la mia capitale che era molto popolata e florida; annientò le case, le piazze pubbliche e i mercati, e ne fece lo stagno e le campagne deserte che avete visto. I pesci dai quattro colori che sono nello stagno sono le quattro specie di abitanti che la componevano; i bianchi erano musulmani; i rossi, persiani adoratori del fuoco; i turchini, cristiani; e i gialli, ebrei. Le quattro colline erano quattro isole, quelle che davano nome a questo regno. Appresi ciò dalla maga, che, per colmo di crudeltà, venne ad annunciarmi questi effetti della sua rabbia. Né ciò è tutto: essa non limitò il suo furore alla mia metamorfosi; viene ancora ogni giorno a darmi cento colpi di nerbo di bue sulle spalle nude, finché non sono tutto sanguinante. Terminato tale supplizio mi copre con una grossa stoffa di pelo di capra e mi mette addosso questa veste di broccato, non per farmi onore, ma per burlarsi di me. A questo punto il giovane re delle Isole Nere proruppe in un pianto dirotto, e il sultano ne ebbe il cuore così addolorato, che non poté neppure pronunciare una parola di consolazione. Poco dopo il giovane re, alzando gli occhi al cielo, esclamò: «Possente creatore di tutte le cose, io mi sottometto ai vostri giudizi ed ai decreti della vostra provvidenza. Io soffro pazientemente tutti i miei mali, perché questa è la vostra volontà: ma spero che la vostra bontà infinita me ne compensi!». Il sultano, commosso dal racconto di questa storia così strana, e deciso a vendicare questo principe sventurato gli disse: «Indicatemi dove sta questa perfida maga, e dove posso trovare il suo indegno amante, seppellito prima della sua morte». «Signore», rispose il principe, «l'amante, come dissi, si trova al Palazzo delle Lacrime, in un sepolcro a forma di cupola: tale palazzo comunica col castello dal lato della porta. Per ciò che riguarda la maga, non so dirvi precisamente dove si ritiri; ma ogni giorno al levare del sole, va a visitare il suo amante, dopo avermi frustato, così come vi ho detto. E io, come potete vedere, non posso difendermi da tanta crudeltà. Essa gli porta la bevanda che è il solo alimento col quale gli ha impedito finora di morire, e non cessa di rimproverarlo per il silenzio che mantiene da quando fu ferito.» «Principe, che non si può compiangere abbastanza», replicò il sultano, «sono commosso dalla vostra sventura, più di quanto possa dire: a nessuno è accaduta una cosa tanto straordinaria, e chi scriverà la vostra storia avrà il vantaggio di trattare un fatto che supera quanto si è scritto di più sorprendente. Manca solo una cosa: la vostra vendetta, e io non mancherò di procurarvela.» Infatti il sultano, intrattenendosi col giovane principe, dopo avergli rivelato chi era e perché era entrato nel castello, gli svelò di aver immaginato un espediente per vendicarlo. Si misero d'accordo, e l'esecuzione fu differita al giorno seguente. Poi, essendo la notte molto inoltrata, il sultano si ritirò. Il giovane principe, come al solito, passò le ore in una veglia continua, perché, ammalato com'era, non poteva dormire. Ma fu consolato dalla speranza di essere liberato dai suoi patimenti. L'indomani il sultano si alzò, e per cominciare, nascose l'abito che l'avrebbe impacciato, e andò al Palazzo delle Lacrime. Lo trovò illuminato da una infinità di torce di cera bianca, e sentì un odore delizioso che usciva da molte urne d'oro fino, di mirabile lavoro, tutte messe in bell'ordine. Come vide il letto, dov'era coricato il moro, impugnò la sua sciabola e uccise, senza trovare resistenza, quel miserabile; ne trascinò il corpo nella corte del castello e lo gettò in un pozzo. Dopo questa operazione, andò a coricarsi nel letto del moro, nascose vicino a sé la sciabola sotto le coperte e attese. La maga giunse quasi subito. Sua prima cura fu di andare nella camera dove si trovava suo marito il re delle Isole Nere. Lo spogliò, e cominciò a colpirlo sulle spalle cento volte col nerbo di bue dimostrando una barbarie senza precedenti. Il povero principe riempiva il palazzo dei suoi lamenti e invano invocava pietà, la donna crudele non desisteva dalla pena e ripeteva: «Tu non hai avuto pietà del mio amante, e non devi attenderne da me...». Dopo che la maga ebbe dato i cento colpi di nerbo al re suo marito, lo rivestì delle sue vesti regali e andò al Palazzo delle Lacrime. Entrando ricominciò a piangere. Si appressò al letto dove credeva che fosse l'amante, ed esclamò: «Quale crudeltà avere così distrutta la felicità di un'amante tenera, e appassionata come sono io! O tu che mi rimproveri di esser troppo inumana quando ti faccio sentire gli effetti del mio risentimento, o principe crudele, la tua barbarie non ha forse sorpassato la mia vendetta? Ah! Traditore, attentando alla vita dell'uomo che adoro, non mi hai forse rapita la mia?». Poi, credendo di parlare al moro, aggiunse: «Ah! Mio sole, mia vita, ancora te ne stai in silenzio? Sei risoluto a lasciarmi morire senza darmi neppure la consolazione di dirmi che mi ami? Anima mia, dimmi almeno una parola, te ne scongiuro!». Allora il sultano, fingendo di uscire da un profondo sonno, e contraffacendo il linguaggio moresco, rispose gravemente: «Ogni forza e potere sono di Dio, che è onnipotente!». A queste parole inattese la maga lanciò un grido, per manifestare l'immensa sua gioia, ed esclamò: «Mio caro signore, non m'inganno? E' vero che tu parli e che io ti ascolto?». «Sciagurata», disse il sultano, «credi di essere degna di una mia risposta?» «Perché oh, perché, mi fate questi rimproveri?», replicò la regina. «Le grida», egli rispose, «i lamenti e i gemiti di tuo marito, che tu tratti con tanta indegnità, mi impediscono di dormire notte e giorno. Da gran tempo sarei guarito e avrei recuperata la parola, se tu lo avessi liberato dall'incantesimo; ecco la causa del mio silenzio, di cui ti lamenti.» «Ebbene», disse la maga, «per calmarti e accontentarti, sono pronta a fare quanto mi comandi; vuoi che lo liberi dalla magia?» «Sì», rispose il sultano, «mettilo subito in libertà affinché io non sia più disturbato dai suoi lamenti.» La maga uscì subito dal Palazzo delle Lacrime, prese una tazza di acqua e pronunciò delle parole magiche che fecero bollire l'acqua come se fosse stata sul fuoco. Andò nella sala dove c'era il giovane principe suo marito, e gettò addosso a lui quell'acqua, dicendo: «Se il creatore di tutte le cose ti ha voluto come sei adesso, o se è in collera contro di te, resta come sei, ma se tu sei in questo stato per i miei incantesimi, ritorna come eri prima». Appena ebbe terminate queste parole, il principe, liberato dalla magia, si alzò liberamente, con tutta la gioia che si può immaginare, e ne rese grazie a Dio. La maga gli disse: «Va' allontanati da questo castello e non tornarvi mai più, o ti costerà la vita!». Il giovine re, cedendo alla necessità si allontanò senza replicare e si ritirò in un luogo appartato, dove aspettò con impazienza il sultano. Intanto la maga, tornata al Palazzo delle Lacrime, credendo di parlare al moro, gli disse: «Caro amante, ho fatto quanto mi hai ordinato; nulla ora t'impedisce di alzarti e di darmi la gioia di cui sono priva da così lungo tempo». Il sultano, continuando a contraffare la voce del moro, le rispose severo: «Ciò che hai fatto non basta per guarirmi; tu hai tolto solo una parte del male; bisogna invece sradicarlo». «Mio grazioso moretto», aggiunse lei, «che intendi dire?» «Sciagurata!», disse il sultano, «non capisci che io intendo parlare di questa città, di questi abitanti e delle quattro isole che hai distrutto coi tuoi incantesimi? Tutti i giorni, a mezzanotte, i pesci non mancano di levare la testa fuori dallo stagno per invocare vendetta contro di me e contro di te: ecco la vera causa del ritardo nella mia guarigione. Va' subito a ristabilire le cose come erano e, al tuo ritorno ti darò la mano, e tu mi aiuterai ad alzarmi.» La maga, piena della speranza nata da tali parole, gridò, esultante: «Cuor mio, anima mia, tu recupererai ben presto la salute, perché vado ad eseguire i tuoi comandi». Infatti partì sul momento, e, come fu sulle rive dello stagno, prese un po' d'acqua in mano e l'asperse sui pesci e sullo stagno; poi, pronunciò alcune parole; allora la città riapparve all'istante, i pesci tornarono uomini, donne e fanciulli, maomettani, cristiani, persiani, ebrei, liberi e schiavi; ciascuno riprese la sua vera natura e le case e le botteghe furono ben presto piene dei loro abitanti. Il numeroso seguito del sultano che se ne stava accampato nella gran piazza, fu molto meravigliato di trovarsi, in un istante, in mezzo ad una città bella, vasta e ben popolata. Quanto alla maga, dopo che ebbe fatto questo meraviglioso incantesimo, tornò immediatamente al Palazzo delle Lacrime per averne compenso. «Mio caro signore», gridò entrando, «vengo a rallegrarmi con te della tua guarigione. Ho fatto quanto mi hai chiesto; alzati dunque e dammi la mano.» «Avvicinati!», le disse il sultano, contraffacendo sempre la voce dei mori. Lei s'avvicinò. «E' poco», egli disse, «vieni ancora più vicina.» Lei obbedì. Allora, il sultano, la prese per il braccio così rapidamente, che lei non ebbe il tempo di accorgersene, e con un colpo di sciabola fendette il corpo di lei in due parti, che caddero ai lati opposti. Lasciò il cadavere sul pavimento, e uscendo dal Palazzo delle Lacrime andò dal giovane re delle Isole Nere, che lo aspettava con impazienza. «Principe», gli disse, abbracciandolo, «gioite: non avete più nulla da temere: la vostra crudele nemica è morta!» Il giovine principe pieno di riconoscenza ringraziò il sultano, e per compensarlo di avergli reso un tale favore, gli augurò una lunga vita e ogni prosperità. «D'ora innanzi», gli disse il sultano, «potete restarvene tranquillo nella vostra capitale, salvo che non vogliate venire nella mia, che è vicina: io vi riceverò con piacere e sarete onorato e rispettato come in casa vostra.» «Potente monarca, cui sono tanto obbligato», rispose il re, «voi credete dunque d'esser molto vicino alla vostra capitale?» «Sì, lo credo», rispose il sultano. «Non vi sono che quattro o cinque ore di cammino.» «Vi è un anno intero di viaggio», ribatté il giovine principe. «Io credo che siate venuto qui in fretta, poiché lo dite, ma ora le cose sono mutate. Ciò non mi impedirà di seguirvi, foss'anche in capo al mondo. Voi siete il mio liberatore, e per potervi dimostrare la mia gratitudine intendo accompagnarvi; per voi abbandono senza dispiacere il mio regno.» Il sultano fu immensamente meravigliato, sentendo che il suo regno era così lontano. Ma il giovine re delle Isole Nere lo convinse di questa possibilità, ed egli non ne dubitò più. «Non importa», riprese allora il sultano, «la fatica che dovrò sopportare per tornare nel mio stato, che è così lontano, è certamente compensata dalla soddisfazione di avervi giovato e di avere acquistato un figlio; infatti, non avendo figli, vi terrò come tale, e fin d'ora vi faccio mio erede e successore.» La conversazione del sultano e del re delle Isole Nere si concluse con le più tenere dimostrazioni di affetto. Dopo di che il giovane principe non pensò che ai preparativi del suo viaggio, che sbrigò in tre settimane, con gran dispiacere di tutta la sua corte e dei suoi sudditi. Infine il sultano e il giovine principe si misero in viaggio con cento cammelli carichi di ricchezze inestimabili, tratte dal tesoro del giovane re, che si fece seguire da cinquanta cavalieri, ben equipaggiati. Il viaggio fu felice, e quando il sultano, che si era fatto precedere da corrieri per annunciare il suo ritorno e l'avventura che gli era capitata, fu presso alla capitale, i primi ufficiali gli vennero incontro e lo assicurarono che durante la sua lunga assenza non era accaduta nessuna novità nell'impero. Gli abitanti uscirono in folla e lo ricevettero con grandi acclamazioni, e fecero festa durante più giorni. Dopo il suo arrivo, il sultano fece a tutti i suoi cortigiani radunati, la narrazione delle cose che avevano resa la sua assenza tanto lunga. Dichiarò in seguito di aver adottato il re delle Isole Nere, che aveva voluto abbandonare un grande regno per accompagnarlo e vivere con lui. Infine, per premiare la fedeltà serbatagli, fece delle elargizioni proporzionate al grado di ciascuno di loro. Quanto al pescatore, poiché era stato la causa involontaria della liberazione del giovine principe, il sultano lo colmò di beni, così che egli visse felice e contento, con tutta la sua famiglia, per molti e molti anni.

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